I brand devono prendere anche posizione?

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Il recente caso di George Floyd, l’afroamericano ucciso soffocato dal peso del ginocchio sul collo da parte dell’ufficiale della polizia Derek Chauvin a Minneapolis il 25 maggio 2020, ha portato ad una rapida ondata di proteste e manifestazioni in tutto il mondo.

I can’t breathe è la frase più volte ripetuta da Floyd durante quei lunghissimi 8 minuti e 46 secondi, divenuta simbolo della rivolta, poi rimbalzata su tutte le testate e i profili social internazionali. E’ contro la discriminazione razziale nella giustizia penale americana e più in generale contro l’abuso di potere e le violenze subite dalle comunità afroamericane che migliaia di cittadini stanno marciando in decine di piazze, per dare voce ad un’America che non ha pietà per chi vive senza “riuscire a respirare”.


Questo episodio, forse solo l’ultimo di quelli diffusi, è stato capace di innescare l’immensa polveriera di instabilità sociale rimasta accesa da secoli e che attraversa sottotraccia tutta la storia politica degli Stati Uniti, ponendosi al culmine di una situazione economica fortemente aggravata dalla diffusione del Covid e dalle disuguaglianze generate dal melting pot.

Ma se da un lato il black lives matters prosegue di giorno in maniera pacifica, dall’altro, gruppi di saccheggiatori distruggono vetrine e rubano dai locali durante la notte. Una spaccatura che evidenza ancora una volta le profonde contraddizioni che regolano di fatto il Paese: c’è chi sfila per ottenere maggiori diritti per la collettività e chi distrugge negozi sfruttando la scia di disordini per ottenere oggetti inaccessibili e rivendicare banali aspirazioni individuali.


Nonostante questi atti non possano essere giustificati, la risposta contro il razzismo è arrivata quasi unanime dal mondo della moda, solo pochi giorni dopo la notizia della morte di George Floyd. Le vetrine più colpite sono infatti quelle dei grandi marchi del lusso che popolano Rodeo Drive a Beverly Hills e la Fift Avenue di New York.


Questo porta a riflettere sul perché abbiano deciso di schierarsi a sostegno dei manifestanti, nonostante siano stati così fortemente danneggiati dalla stessa comunità alla quale si rivolgono. Marketing etico? Populismo? Nuove forme di partecipazione? O vera e propria partecipazione?

Le aziende produttrici di beni di consumo si sostituiscono così ai leader politici e alle associazioni, facendosi portavoce di messaggi importanti e mettendo il proprio nome e la propria creatività a servizio di mission sociali e culturali fondamentali.


Appurato che il concetto di brand evochi promesse, esperienze e senso di condivisione e vada ben oltre al nome e al simbolo ad esso associato, è giusto che prendano posizione e appoggino questi movimenti?

Certamente sì, quando si parla di valori universali e diritti inalienabili; forse non è necessario nel caso in cui riguardi questioni politiche o sociali minori o molto personali.


Questo tipo di comunicazione rende i brand soggetti attivi e partecipi della stessa società alla quale offrono i propri servizi e il coraggio di prendere posizione denota una vision profonda e l’esistenza di un sistema valoriale più ampio, costituito dalla propria storia e da una filosofia che condivide con la stessa collettività.

Il rischio più evidente nel settore moda causato dal lockdown del Covid nei primi mesi del 2020 è un raffreddamento della popolazione ai suoi richiami, al cambiamento degli stili di vita e delle abitudini. L’elevata velocità e la grande esposizione mediatica stanno portando ora a riflettere sui ritmi degli sviluppi creativi e sull’intero processo produttivo e forse anche a riappropriarsi degli antichi ruoli sociali.


Assumendo una posizione e inviando messaggi positivi possono in questo modo contribuire attivamente al cambiamento e rendere allo stesso tempo più virtuosa la comunicazione di marca, rivolgendosi all’intera comunità e non solamente ai propri target di riferimento.


Copertina: Pinterest